La Polonia andava presa, conquistata, la fretta consumata,
in quattro giorni, l’accanimento selvaggio contro quello che non è me, il mio
Reich, il mio sordido nazismo, riflettersi in una guerra che solo un malato poteva
pensare di vincere.
Vincere molte battaglie e poi inevitabilmente perdere la
guerra.
Riversare quantità indecenti di ‘’come bisogna fare’’ .
Verbi patetici in crema spalmabile sulle infelicità
croniche.
Nostalgia, troppo dolce per essere vera.
È la paura, l’insicurezza o la mancanza di alternative comode
che spacca la vita in due, è giù fiotti di sangue e pezzi di nervi nel
tritacarne.
Mentre cammino con voi in questa paesaggio arcaico, mentre
il grande vecchio saggio spiega cosa, come e quando essere e cosa, come e
quando avere, io sogno di starmene qui nella pace delle nuvole, nell’orgasmo
degli occhi, qui a mille metri di distanza dal mondo, dalle sue logiche e dai
suoi contraddittori insegnamenti.
Sento su di me i numerosi passi su sentieri dissestati, la
verità che si schiude respirando la montagna, rispettandone gli equilibri,
danzando con l’erba per la forza del vento.
Giuro che ho visto l’aria abbracciarci e temo lo sciogliersi
di questo abbraccio.
E non so capire se questa quiete illumina l’assenza di me o
la presenza di me, perché qui si scompare sullo sfondo, qui questo enorme tutto sembra ancora più grande e vorrei
capire, perché quel tutto sembra alla
portata di ognuno e ognuno nel suo piccolo contribuisce a distruggerlo.